INDICE

 

    * PARTE II - VIAGGIO IN CECENIA

          o ARRIVO IN RUSSIA

          o DA MOSCA AL CAUCASO

          o LE CONDIZIONI DEI PROFUGHI

          o I RACCONTI DEI PROFUGHI

          o GROZNY

          o LA SITUAZIONE ATTUALE

          o Le Nazioni Unite

          o Gli osservatori internazionali.

          o I mezzi di informazione

          o Crimini di guerra

          o LE PROSPETTIVE

    * PARTE III - UNO SGUARDO ALL'ITALIA - CONSIDERAZIONI PERSONALI

    * APPENDICE FONTI, DOCUMENTI E ARTICOLI UTILIZZATI PER QUESTO DOSSIER

 

PARTE II VIAGGIO IN CECENIA

Il 18 maggio 2000 ho iniziato il mio viaggio in Russia e in Cecenia assieme ad altri tre volontari dell'"Operazione Colomba", il corpo civile di Pace nonviolento nato all'interno della Comunita' "Papa Giovanni XXIII" di Rimini.

 

ARRIVO IN RUSSIA

In un precedente viaggio esplorativo i ragazzi dell'Operazione Colomba avevano gia' preso contatto con Antonio, un ex prete operaio milanese che da piu' di 20 anni lavora per la Caritas russa, e che anche in questo secondo viaggio di Pace e' la nostra "base di appoggio" in Russia.

 

Antonio e' ormai specializzato in quello che lui definisce l'"import - export" di stranieri, un modo colorito per descrivere il lavoro di supporto logistico con cui favorisce i movimenti di molti operatori umanitari, che grazie a lui riescono a raggiungere ogni angolo della Russia in cui ci sia bisogno di aiuto.

 

La prima cosa di cui ci parla e' la qualita' dell'informazione sul Caucaso fatta dai mass media italiani, un'informazione che definisce "tendenziosa e non verosimile" in quanto distorta dagli interessi economici e geopolitici delle grandi potenze del mondo, che in Caucaso stanno giocando una partita importantissima dal punto di vista strategico, economico e militare.

 

Nei giorni precedenti alla nostra partenza per il Caucaso Antonio ci aiuta ad organizzare una serie di incontri a Mosca con alcune persone che si stanno occupando della questione cecena. Il primo incontro e' con Eduardo, corrispondente da Mosca di un quotidiano portoghese, che ci parla della situazione attuale della Cecenia.

 

Il giorno successivo incontriamo Rendt, il coordinatore dei progetti di assistenza medica che la sezione olandese dell'organizzazione "Medici Senza Frontiere" sta realizzando in Cecenia. Rendt ci parla dei grossi problemi legati alla sicurezza degli operatori umanitari e del personale della sua organizzazione, problemi che si presentano non solo in Cecenia, ma anche nella vicina Inguscezia, territori dove fino allo scoppio della seconda guerra il rapimento degli stranieri a scopo di estorsione era allo stesso tempo lo "sport nazionale" piu' diffuso e l'attivita' economica piu' redditizia. Quello dei rapimenti e' un problema molto serio, tenuto in grande considerazione da ogni organizzazione umanitaria che opera in Inguscezia o in Cecenia. Anche se la guerra in corso ha temporaneamente rallentato i sequestri, tutti si aspettano una nuova ondata di rapimenti da un momento all'altro, e durante il nostro soggiorno in Inguscezia avremo modo di verificare direttamente questo stato di allerta, osservando il numero delle guardie armate che circondano gli operatori umanitari stranieri.

 

"The most dangerous place in the world for foreigners", il posto piu' pericoloso del mondo per gli stranieri. E' questa la definizione del Caucaso secondo Rendt, che ci mette in guardia anche dalla possibilita' di abusi da parte delle autorita' militari e dal banditismo.

 

I problemi burocratici rappresentano un altro notevole ostacolo per chi opera in Cecenia e in Inguscezia. E' piu' o meno facile ottenere dei documenti per essere autorizzati a entrare in Cecenia, ma e' impossibile avere la certezza che questi documenti ti coprano in ogni situazione. Qualche giorno piu' tardi sperimenteremo di persona il valore aleatorio dei "pezzi di carta", quando, dopo essere entrati in Cecenia gia' tre volte, al quarto tentativo gli stessi permessi che ci hanno consentito di raggiungere Grozny e Urus-Martan non saranno sufficienti nemmeno per superare il primo posto di blocco alla frontiera con l'Inguscezia.

 

Oltre a non consentirci l'ingresso in Cecenia, in quella occasione le autorita' locali hanno anche voluto che ci identificassimo, e dopo aver fatto una fotocopia dei nostri documenti uno di noi e' stato anche interrogato da un funzionario dell'FSB, il servizio segreto federale che ha preso il posto del KGB.

 

Rendt ci illustra anche il meccanismo di funzionamento del sistema di sicurezza adottato da "Medici Senza Frontiere" a garanzia dei suoi operatori, una complessa sequenza di procedure per fronteggiare con risposte immediate qualsiasi tipo di emergenza e per garantire un contatto continuo del personale che opera sul posto con l'ufficio centrale di Mosca.

 

Tornando a casa, dentro di me si fa strada una sensazione di piccolezza rispetto alla grande dimensione dei problemi e alla complessita' delle situazioni. Aver toccato con mano la grandezza della colossale macchina logistica delle organizzazioni umanitarie mi da' l'impressione che la costruzione della Pace sia una cosa per "addetti ai lavori", una attivita' riservata a pochi professionisti.

 

La mia presenza in Cecenia e' stata anche una lotta contro questa impressione, un modo per affermare concretamente che anche le singole persone, senza grandi strutture e con poche risorse economiche, possono dare voce alle vittime delle guerre e far fare un piccolo passo indietro alla violenza, prendendo a cuore una situazione anziche' girare la testa dall'altra parte. La storia non si costruisce nei palazzi, ma per strada assieme alla gente.

 

DA MOSCA AL CAUCASO

Dopo la prima serie di incontri a Mosca, un aereo ci porta a Nazran, la capitale dell'Inguscezia, che sara' la nostra "base operativa" per tutti i giorni successivi. A partire da Nazran ci recheremo piu' volte in Cecenia, accompagnati da alcuni operatori umanitari che fanno la spola tra l'Inguscezia e la Cecenia per trasportare aiuti destinati alla popolazione civile.

 

Il nostro "partner locale" a Nazran e' l'associazione Memorial (www.memo.ru), fondata a Mosca dal dissidente russo Andrei Sacharov e da Sergei Kovaliev, un altro dissidente del regime sovietico che attualmente e' deputato del parlamento russo, dopo aver trascorso diversi anni nei campi di concentramento all'epoca di Breznev.

 

Ad accoglierci e' Elisa, una psicologa che trascorre meta' della settimana nei campi profughi dell'Inguscezia assieme ai bambini per curare i traumi provocati dalla guerra, e dedica l'altra meta' della settimana al lavoro principale di Memorial, l'ascolto dei profughi che affidano all'associazione le loro testimonianze sui massacri di civili compiuti durante la guerra, documentando spesso queste violenze brutali con foto e filmati. Memorial ha aiutato anche Mary Robinson, commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, a raccogliere documenti e testimonianze dirette che sono state utilizzate dalla Robinson nel suo rapporto sulla situazione in Cecenia presentato alle Nazioni Unite.

 

I membri di Memorial aiutano anche i profughi a presentare presso la Corte europea di Strasburgo le denunce in merito alle violazioni dei diritti umani subite nel corso della guerra.

 

LE CONDIZIONI DEI PROFUGHI

Secondo le stime del ministero russo per le situazioni di emergenza (Emercom) il numero dei profughi attualmente ospitati nei campi dell'Inguscezia si aggira intorno alle 180mila unita'. Qualche migliaio di profughi ha trovato rifugio anche negli altri territori che confinano con la Cecenia, come l'Ossezia o il Daghestan, e parecchie decine di migliaia di persone si trovano nei campi profughi della Cecenia.

 

I campi in Cecenia sono quelli dove il cibo, i vestiti e le cure mediche arrivano piu' difficilmente, poiche' per problemi di sicurezza e per ostacoli burocratici gli operatori umanitari hanno grossissime difficolta' a muoversi all'interno dei confini ceceni.

 

La scarsa liberta' di movimento riduce la frequenza con cui possono essere trasportati gli aiuti e rende molto faticoso raggiungere alcuni villaggi, soprattutto quelli che si trovano nelle zone che non sono ancora completamente sotto il controllo delle forze armate russe, ad esempio i villaggi ai piedi della zona montagnosa situata nella parte sud della Cecenia. Proprio in quelle montagne, infatti, avrebbero trovato rifugio i guerriglieri ceceni, e il trasporto di aiuti umanitari alle popolazioni civili dei villaggi che circondano le montagne e' attualmente una impresa quasi impossibile.

 

Le organizzazioni internazionali presenti sul territorio hanno pochissimo personale estero e utilizzano molto personale locale, proprio perche' gli stranieri sono molto piu' visibili ed e' per loro maggiore il rischio di attentati e rapimenti. Persino l'UNHCR, l'alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sta cercando di affrontare l'emergenza cecena evitando una presenza diretta sul territorio del personale internazionale e affidando gli aiuti umanitari a referenti locali distribuiti sul territorio.

 

Accanto ai campi "ufficiali", esistono anche numerosi insediamenti spontanei di profughi, che vivono in fabbriche abbandonate, stalle, capannoni o tendopoli che sorgono su territori messi a disposizione da benefattori.

 

Uno degli insediamenti spontanei in cui ci siamo recati, forse quello in condizioni peggiori tra quelli che abbiamo visitato, e' costituito da un gruppo di 2000 persone, che a circa trenta chilometri da Nazran ha occupato un terreno agricolo con una stalla e un capannone. Sia nel capannone che nella stalla sono state costruite delle baracche fatte di pezzi di legno, compensato e alcuni mattoni tenuti insieme alla bell'e meglio con un po' di cemento. Adulti e anziani hanno insistito perche' entrassimo nelle baracche per osservarle dall'interno. Nella stalla il pavimento delle baracche e' rimasto lo stesso impasto nero di terra, fango e sporcizia che prima dell'arrivo dei profughi veniva calpestato dagli animali. In questa fangopoli senz'acqua e senza luce i bambini giocano assieme alle mucche e ai vitelli che i profughi hanno portato con se' durante la loro fuga. Gli operatori umanitari fanno quello che possono, ma purtroppo il loro lavoro e' reso davvero difficile dal grande numero dei rifugiati.

 

Oltre alla solidarieta' delle organizzazioni umanitarie i profughi hanno potuto contare anche sulla solidarieta' spontanea di una parte della popolazione dell'Inguscezia. In diversi casi i rifugiati in fuga dalla Cecenia sono stati ospitati nelle case di alcune famiglie o hanno trovato delle persone che hanno messo a loro disposizione un capannone o un fabbricato dove gli stessi profughi hanno costruito degli alloggi con materiale di fortuna.

 

Nonostante queste forme di solidarieta' spontanea e nonostante la grande mole di lavoro delle organizzazioni umanitarie, si fa ancora fatica a soddisfare tutte le esigenze nate dall'emergenza della guerra e dall'esodo forzato di decine di migliaia di persone. A differenza del Kossovo, la Cecenia non ha una sua "missione Arcobaleno", e le risorse a disposizione per gli aiuti umanitari destinati ai profughi sono ancora scarse e non sufficienti a coprire completamente tutte le necessita'. I profughi che vivono in Cecenia, a differenza di quelli dell'Inguscezia, oltre a subire la conseguenza di questa scarsita' di risorse sono ulteriormente penalizzati a causa della grande difficolta' a muoversi in territorio ceceno.

 

Dopo un inverno passato in condizioni precarie, i profughi stanno iniziando lentamente a porsi il problema del ritorno a casa. Alcuni sono riusciti a fare avanti e indietro dall'Inguscezia alla Cecenia per controllare di persona le condizioni del proprio villaggio o della propria casa, e per il momento sono ancora pochi quelli che sono riusciti a rientrare. Alcuni profughi non hanno nulla a cui tornare perche' molti piccoli villaggi, sospettati di essere dei luoghi di rifugio per i guerriglieri, sono stati interamente rasi al suolo dai bombardamenti. Anche molti abitanti di Grozny non hanno piu' una casa a cui fare ritorno, a causa dell'altissimo livello di distruzione della citta', che dopo due guerre e' ormai quasi completamente ridotta in polvere.

 

Un altro grande problema dei profughi riguarda i documenti. I ragazzini che sono scappati dalla Cecenia prima dei 16 anni non avevano ancora i documenti, e questo rende piu' difficile il loro rientro. Anche una consistente percentuale degli adulti e' priva del passaporto o di documenti validi per il rientro in Cecenia. Molti hanno solo dei pezzi di carta o dei certificati su cui risulta il loro nome, e alcuni non hanno nessun tipo di documento per essere identificati. Tutti hanno perso a causa della guerra almeno un parente, un amico o una persona cara.

 

I bambini sono una percentuale altissima della popolazione dei campi profughi, e sono quelli che hanno maggiormente subito i danni psicologici causati dalla guerra e dalla violenza. Dopo la prima guerra in Cecenia, su una popolazione di circa un milione di abitanti c'erano circa 20 mila bambini che avevano perso a causa della guerra almeno uno dei due genitori. Questa cifra e' purtroppo aumentata notevolmente dopo il secondo conflitto, anche se non ci sono ancora cifre ufficiali. Non si hanno dati certi neppure sul numero dei bambini resi invalidi a causa della guerra. Molti psicologi e operatori con cui siamo venuti in contatto nel nostro viaggio, hanno riscontrato lavorando nei campi profughi assieme ai bambini che le difficolta' piu' grandi sono di tipo psicologico, e per chi e' rimasto in Cecenia il trauma della guerra continua tuttora. Di notte e' difficile dormire a causa del rumore dei combattimenti, e quando l'artiglieria russa attacca i razzi passano sulla testa degli abitanti dei villaggi ai piedi delle montagne, generando continui traumi psicologici. Grazie al lavoro di riabilitazione degli operatori umanitari, alcuni bambini riescono ad avere un aiuto qualificato per guarire dal loro "invecchiamento psichico", ma ogni volta che si fa un passo avanti basta anche il rumore assordante di un elicottero che vola a bassa quota per ritornare al punto di partenza.

 

I RACCONTI DEI PROFUGHI

Ad ogni nostra visita nei campi profughi la gente si radunava immediatamente intorno a noi per capire chi fossimo, per parlare con noi, per farci delle domande e condividere con noi tutta la rabbia, la sofferenza, il dolore e l'angoscia accumulate durante lunghi mesi segnati dalla guerra e dalle precarie condizioni di vita.

 

Ho visto una donna venirmi incontro con un bambino di pochi anni, molto timido e restio a farsi sollevare la maglietta. Sotto quella maglietta c'era una cicatrice molto larga e lunga una trentina di centimetri, provocata, stando al racconto della donna, dalle milizie russe. Nello stesso campo profughi un uomo mi indica una donna che cammina con due stampelle. Mi raccontano che quella donna ha perso una gamba e il suo bambino per una bomba caduta vicino a lei proprio nel momento del parto. Sul viso del nostro accompagnatore ceceno, un ragazzo di vent'anni anche lui rifugiato in Inguscezia, si dipinge una smorfia di rabbia. Piu' tardi mi confida che davanti a certe situazioni avrebbe voglia di andare a combattere anche lui contro i russi. Mi chiedo che alternativa sta offrendo a questo ragazzo la comunita' internazionale per soddisfare il suo senso di giustizia in un modo differente dall'"occhio per occhio" della violenza armata. Siamo anche noi che mettiamo questi ragazzi in condizione di non avere altra alternativa che vincere o morire nella guerriglia.

 

I profughi ci hanno raccontato anche dei rastrellamenti effettuati dall'esercito russo nei loro villaggi. Secondo i racconti delle persone con cui abbiamo parlato, basta un segno sulla spalla, un taglio o un livido, magari provocati dal lavoro o dal trasporto della legna, per interpretare quel livido o quella ferita come l'effetto del rinculo del fucile o la conseguenza di un combattimento, ed essere identificato come un guerrigliero. Anche un documento non perfettamente in regola e' sufficiente per essere segnalati come membri delle forze ribelli. E' in questo modo che tanti ragazzi, anche molto giovani, sono stati giustiziati o inviati nei "campi di filtraggio", campi di concentramento che finora nessun giornalista e' riuscito a vedere, ne' tantomeno il commissario ONU per i diritti umani. Tutto quello che si sa dei campi di filtraggio si deve ai racconti dei pochi prigionieri fuoriusciti che sono fuggiti dalla Cecenia per ricevere cure mediche in Inguscezia, e che affermano di aver vissuto in condizioni disumane.

 

"Perche' i paesi pacifici non ci aiutano? Perche' nessuno fa niente per noi ?" E' questo quello che ci chiedono queste persone assetate di speranza. Ci chiedono se qualcuno di noi puo' portare all'estero i suoi bambini per le vacanze, perche' "non e' giusto che solo i bambini di Cernobyl vadano in Italia". Molti di loro sono anche sorpresi per l'arrivo di alcune persone dall'Italia, e ci invitano a tornare. "Vogliamo che gli italiani vengano a Grozny. Era una bella citta', prima che la distruggessero".

 

In un altro insediamento di profughi ci raccontano che i russi avrebbero utilizzato bombe in grado di penetrare nel terreno per parecchi metri, bombe in grado di distruggere le fondamenta delle case e i locali sotterranei dove le persone credevano di trovare rifugio.

 

Dopo alcuni giorni in Inguscezia, due di noi sono riusciti ad entrare in Cecenia per partecipare ad un incontro organizzato dall'amministrazione federale russa per la Cecenia, l'organismo ufficiale che esercita il controllo amministrativo sul territorio per conto delle autorita' federali. A questo incontro, che si svolge ogni settimana nella citta' di Urus-Martan, sono invitati tutti i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie. Dopo il meeting siamo riusciti ad ottenere dalle autorita' il "Propusk", un permesso che in teoria permetterebbe la libera circolazione degli operatori umanitari in Cecenia, in pratica e' solo una chance in piu' di passare un posto di blocco.

 

Grazie a questi permessi siamo riusciti a visitare alcuni campi della Cecenia, tra cui i campi di Sernovodsk e Assinovskaya. Ad Assinovskaya i profughi ci hanno confermato con i loro racconti e le loro testimonianze un episodio riportato anche nel rapporto sulla Cecenia dell'Alto Commissario ONU per i diritti umani. Questi profughi, mentre fuggivano dal centro del paese, hanno incontrato un posto di blocco oltre il quale era impossibile passare, dal momento che la Russia aveva temporaneamente chiuso la frontiera tra la Cecenia e l'Inguscezia. La colonna di profughi, rimasta bloccata tra la frontiera chiusa e l'epicentro dei combattimenti, e' stata costretta a fermarsi e per diversi giorni le persone hanno vissuto per strada dormendo nelle macchine e negli autobus utilizzati per la fuga. Nonostante fossero li' da diversi giorni, e nonostante le autorita' fossero perfettamente al corrente che si trattava unicamente di civili, l'aviazione, stando a quanto affermano le persone con cui abbiamo parlato, avrebbe bombardato a piu' riprese l'intera colonna di profughi.

 

GROZNY

Lunedi' 29 maggio siamo entrati a Grozny assieme ad alcuni operatori umanitari che sono in contatto con alcune famiglie della citta'. Subito dopo il primo posto di blocco alla frontiera con l'Inguscezia il paesaggio cambia bruscamente. Ai lati delle strade iniziano ad apparire bunker fatti con sacchi di sabbia, carri armati seminterrati a protezione delle barricate, mezzi cingolati, fortini, torrette e ogni genere di costruzione militare. La strada che da Nazran porta a Grozny e' praticamente un unico posto di blocco, e non si fa in tempo a passare i controlli di un checkpoint che all'orizzonte appare subito un'altra postazione di controllo. Guardando i campi di papaveri schiacciati dai cingoli dei carri armati russi ho pensato subito ai papaveri della "guerra di Piero" di Fabrizio de Andre'.

 

Arrivati a meta' del percorso i soldati ci fanno segno di fermarci. La strada e' bloccata. "They're checking people", stanno controllando le persone, mi spiega l'uomo che ci accompagna. Penso ai racconti fatti dai profughi sui rastrellamenti e i controlli dei documenti nei villaggi della Cecenia, e mi chiedo che cosa stia accadendo al di la' di quel blocco stradale che ci impedisce il passaggio. Dopo piu' di 40 minuti, quando ormai inizio a pensare che saremmo tornati indietro, i soldati ci fanno segno che possiamo ripartire. Anche al ritorno incontreremo un blocco stradale, che ci costringera' ad una deviazione attraverso il villaggio di Ackhoi-Martan. Dal finestrino della macchina guardo le facce dei soldati. Molti sono appena dei ragazzi con il giubbotto mimetico pieno di caricatori della mitragliatrice. Ragazzini con gli occhi freddi e con tanta paura, che non dovrebbero avere in mano un fucile, ci fanno scendere dalla macchina, ci guardano i documenti, fanno la faccia cattiva piu' per abitudine che per convinzione. Guardo questi ragazzi e mi sembra di guardare l'altra faccia della guerra, le altre vittime di questa violenza assurda. Qualche giorno piu' tardi, rientrando a Mosca, capiro' meglio lo sguardo di quei ragazzi, grazie ad un incontro con il comitato delle madri dei soldati russi.

 

Non solo in Cecenia, ma in tutti i "punti caldi" della Russia in cui sono in corso dei conflitti, ragazzi poco piu' che adolescenti vengono mandati a combattere con gravissimi danni psicologici e fisici. La maggior parte dei soldati, rientrando dalle zone di guerra, soffre di gravi disturbi mentali e ha forti problemi di disadattamento. Dopo essere stati dipinti come eroi di guerra dai giornali e dalla televisione, questi ragazzi faticano moltissimo a trovare qualcuno che voglia dargli la possibilita' di lavorare, dal momento che in Russia nessuno prende volentieri ex-soldati alle proprie dipendenze. Lo stato garantisce una buona assistenza medica solo a chi e' ancora dentro l'esercito, e molti ex-soldati rimasti invalidi in battaglia vengono abbandonati a loro stessi senza nessun tipo di cure, con una pensione di invalidita' equivalente a poche decine di migliaia di lire al mese. Il comitato delle madri dei soldati, in occasione delle feste di Natale, ha raccolto le lettere dei soldati impegnati nella guerra in Cecenia, e rientrando a Mosca i volontari del comitato hanno chiamato le famiglie dei ragazzi per leggere le lettere per telefono. Molte madri hanno viaggiato per parecchi chilometri fino a Mosca per entrare in possesso del pezzo di carta scritto dal figlio.

 

Prima di leggere l'assurdita' della guerra tra le macerie di Grozny, la leggo negli occhi di questi soldati bambini, e mi chiedo quale sia la forza maligna che ha il potere di trasformare un ragazzo in un criminale di guerra. Penso a tutte le vittime civili della Cecenia, ai bombardamenti indiscriminati sui villaggi, a tutti i racconti fatti dai profughi, e guardo le armi, le pistole, i pugnali, le granate, le mitragliatrici in mano a soldati molto piu' giovani di me.

 

Dopo una serie infinita di controlli e posti di blocco arriviamo in prossimita' di Grozny. Una lunga colonna di fumo nero ci indica il luogo in cui sorge la raffineria, ormai completamente distrutta. Il fumo, ci dicono, e' provocato da petrolio in combustione che fuoriesce dagli oleodotti bombardati. Raggiungiamo una famiglia in una zona periferica della citta', una famiglia che ha deciso di non muoversi da casa sfidando le bombe e le razzie. L'orto piantato in inverno sta iniziando a produrre dei frutti, e a Grozny mangio le cose piu' buone di tutta la mia permanenza in Russia. L'ospitalita' delle persone e' eccezionale, e quel giorno festeggiamo insieme l'arrivo del gas, che mancava da prima dell'inverno. Mentre ci raccontano dei bombardamenti, guardo i muri della loro casa riparati col fango, e provo allo stesso tempo un senso di ammirazione e di vergogna nel vedere la grande dignita' di queste persone e nel sentirmi ingiustamente privilegiato rispetto a loro. Alcuni vicini mi portano a visitare le loro case danneggiate dalle bombe, e mi chiedo che senso abbia il bombardamento di un intero quartiere residenziale privo di qualsiasi installazione o struttura che potrebbe rivestire un'importanza strategica o militare.

 

Ci spostiamo nel centro della citta'. I controlli sono fittissimi, c'e' un posto di blocco praticamente ad ogni angolo di strada, e il livello di distruzione delle case e dei palazzi e' talmente alto da risultare angosciante e opprimente. Prendo una nota sul mio taccuino "Fino ad oggi non avevo ancora capito fino in fondo il senso dell'espressione 'cumulo di macerie'. Oggi posso esprimere lo stesso concetto con una sola parola GROZNY". In mezzo a queste macerie le poche migliaia di persone rimaste in citta' hanno improvvisato una economia primitiva, fatta di bancarelle che vendono pomodori e pesce secco, signore che vendono i cipollotti del loro orto stesi sul marciapiede sopra un fazzoletto, negozietti che espongono i pochi pezzi di carne che riescono ad arrivare in citta'.

 

I palazzi in condizioni migliori sono quelli che sono stati semplicemente bombardati senza essere crollati, e la distruzione della seconda guerra si sovrappone a quella della prima. Ci rechiamo in diversi punti della citta', e ci rendiamo subito conto che non esiste nessuna zona di Grozny che non abbia subito gli effetti disastrosi dei bombardamenti. Alcune case non appaiono distrutte, ma semplicemente incendiate e saccheggiate. Ci raccontano del doppio saccheggio subito da una signora anziana che ha ricevuto in un primo momento la "visita" dei guerriglieri ceceni e in seguito ha dovuto subire una seconda razzia da parte dei soldati russi. La gente, schiacciata in mezzo allo scontro tra truppe russe e guerriglieri, e' semplicemente stanca di tutta questa distruzione assurda. Ci raccontano che adesso le strade sono state "ripulite", ma che nei giorni immediatamente successivi ai bombardamenti il transito delle macchine per strada era impossibile a causa delle macerie e dei cadaveri che ostruivano il passaggio.

 

Tornando indietro sulla strada che ci riporta a Nazran, osserviamo una scritta rossa dipinta dai soldati sul muro di una casa "Il terrorismo e' la malattia, noi siamo la cura". Una "cura" che ha raso al suolo una citta' di 400 mila abitanti, dove adesso vivono solo poche migliaia di persone.

 

Dopo una seconda serie di controlli ai posti di blocco, rientrando in Inguscezia mi accorgo che vedere una strada libera fino all'orizzonte, senza sbarramenti, barricate o carri armati e' una immagine che mi da' un grande senso di sollievo.

 

LA SITUAZIONE ATTUALE

All'interno dei confini della Cecenia non esiste al momento nessuna presenza stabile di volontari o di operatori umanitari, e tutte le organizzazioni che si occupano dell'assistenza ai profughi sono costrette a fare la spola dall'Inguscezia alla Cecenia con viaggi periodici, che iniziano e terminano nella stessa giornata, per fornire assistenza medica e trasportare cibo, medicine e vestiti. Al momento nessuna associazione o organizzazione italiana e' presente in Cecenia o in Inguscezia. Le scarse condizioni di sicurezza, il protrarsi dei combattimenti, l'assenza di una volonta' politica per agevolare il lavoro degli operatori umanitari e gli ostacoli burocratici rendono impossibile una presenza continuativa in Cecenia delle organizzazioni non governative. Le conseguenze di questa ridotta mobilita' e liberta' di azione ricadono in primo luogo sui rifugiati presenti nei campi profughi della Cecenia, che vengono doppiamente penalizzati, sia perche' ricevono aiuti con meno frequenza e con piu' difficolta', sia perche' una presenza stabile di operatori internazionali sul territorio ceceno potrebbe garantire ai profughi condizioni di sicurezza leggermente migliori, con un effetto deterrente che potrebbe impedire eventuali "sbavature" nella condotta dell'esercito russo e vessazioni sulla popolazione civile.

 

Le Nazioni Unite

Il World Food Program, l'Unicef e l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), sono le tre organizzazioni che fanno capo alle Nazioni Unite attualmente impegnate nella realizzazione di progetti medici, alimentari, sanitari ed educativi rivolti ai profughi. Anche queste organizzazioni stanno adottando delle modalita'operative che permettono di far arrivare aiuti umanitari in Cecenia senza una presenza fissa sul posto, utilizzando organizzazioni e personale locale incaricato della ricezione e della distribuzione degli aiuti.

 

Gli osservatori internazionali.

La presenza di osservatori internazionali in Cecenia, piu' volte invocata dai governi dei paesi occidentali, non e' ancora stata autorizzata dalle autorita' della Federazione Russa. Questa presenza potrebbe garantire ai profughi un notevole beneficio, con il triplice effetto di dare maggiore sicurezza ai civili, ridurre gli abusi dei militari e fornire informazioni dirette e non filtrate sulla situazione della Cecenia, sulle violazioni dei diritti umani e sulle condizioni di vita dei profughi. Oltre alla difficolta' di recarsi personalmente in Cecenia, gli osservatori internazionali delle agenzie di monitoraggio per i diritti umani sono anche fortemente ostacolati dalle autorita' russe. Il 30 maggio 2000 un rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in Cecenia non ha potuto uscire dalla Russia insieme alla ricercatrice che lo aveva realizzato, poiche' e' stato sequestrato all'aeroporto di Mosca in quanto ritenuto "propaganda anti-russa".

 

I mezzi di informazione

La Cecenia e' praticamente off-limits anche per i giornalisti e gli operatori dei mass-media. Per loro e' praticamente impossibile lavorare liberamente al di fuori delle rare "visite guidate" in Cecenia organizzate dai militari russi per accontentare la sete di informazioni delle agenzie internazionali. A causa di questa difficolta' oggettiva incontrata dagli operatori dell'informazione, in occidente arrivano informazioni scarse e distorte, prodotte utilizzando fonti polarizzate che non sono in grado di garantire una effettiva obiettivita' ed equidistanza dalle parti in conflitto, una obiettivita' ed una equidistanza che potrebbero essere garantite dalla presenza di giornalisti indipendenti in grado di muoversi con un sufficiente grado di liberta'.

 

Crimini di guerra

Le gravi violazioni dei diritti umani avvenute nel corso della seconda guerra in Cecenia sono state documentate in un rapporto del 5 aprile 2000 presentato da Mary Robinson, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, un rapporto passato inosservato sui mezzi di informazione italiani. In questo rapporto, disponibile in rete all'indirizzo www.reliefweb.int, sono documentati gli abusi e le violenze compiuti dall'esercito federale russo e dalle milizie cecene. Per quanto riguarda i russi, nel rapporto vengono raccolte testimonianze dettagliate su esecuzioni di massa in cui hanno perso la vita bambini e anziani, bombardamenti a tappeto su colonne di profughi in fuga, fosse comuni, torture. Il rapporto evidenzia anche le violazioni dei diritti umani commesse a danno della popolazione del Daghestan ad opera delle milizie cecene durante il raid dell'agosto '99. La Robinson sottolinea nel suo rapporto la necessita' di una risposta piu' consistente da parte delle autorita' della Federazione Russa per individuare e processare i responsabili dei crimini di guerra, e auspica una soluzione pacifica del conflitto attraverso un negoziato. Un'altro punto chiave di questo documento e' l'invito fatto alla Federazione Russa per la creazione di una commissione d'inchiesta nazionale indipendente che abbia il compito di indagare sui crimini di guerra commessi in Cecenia, e che dovrebbe collaborare strettamente con la rispettiva commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani.

 

LE PROSPETTIVE

La situazione attuale in Cecenia non e' tale da far prevedere una soluzione a breve termine del conflitto. Dal punto di vista militare si e' creato uno stallo con l'individuazione di due nette zone di influenza controllate dalle due parti in conflitto. Il nord e la parte pianeggiante centrale della Cecenia sono ormai completamente presidiate dalle forze armate russe, mentre la zona montagnosa nella parte meridonale viene descritta come la roccaforte della guerriglia. Anche se lo scontro armato non e' piu' cosi' violento come nei mesi precedenti, la guerra continua a mietere quotidianamente nuove vittime tra militari e civili. Il problema dei profughi non e' certamente di facile soluzione, anche in considerazione del fatto che interi villaggi sono stati completamente rasi al suolo, e i sopravvissuti ai raid aerei compiuti su quei villaggi ormai non hanno piu' una casa dove ritornare. Anche per gli abitanti di Grozny il rientro si prospetta difficile e non immediato, dal momento che interi quartieri della citta', soprattutto nel centro, sono diventati un ammasso di rovine e il grado di distruzione e' altissimo. Le aspirazioni dei civili e dei profughi sono ormai lontanissime dalle posizioni dei guerriglieri. L'unico desiderio e' quello di ripristinare la pace e di vivere in condizioni di sicurezza.

 

Per il raggiungimento di una pace dignitosa in Cecenia e' poco realistico sperare che il nostro Paese eserciti delle forme efficaci di pressione sulla Federazione Russa, che vadano al di la' delle semplici dichiarazioni di principio.

 

I legami politici, economici e militari che legano l'Italia alla Russia sono ormai troppo saldi per essere spezzati dal "piccolo contrattempo" rappresentato dal sangue di migliaia di vittime civili, da duecentomila profughi ammassati in Inguscezia e da altre centinaia di migliaia di civili che in Cecenia vivono nel terrore praticamente al limite della sopravvivenza. Le recenti visite diplomatiche effettuate da Vladimir Putin e l'ottima accoglienza ricevuta in Vaticano e al Quirinale non potranno far altro che rafforzare questi legami.

 

L'Eni, Ente Nazionale Idrocarburi, e' attualmente il principale partner industriale e commerciale della Russia, con un flusso annuo di capitali pari a circa 2 miliardi di dollari. Nel corso della sua visita a Roma Vladimir Putin ha piacevolmente chiacchierato con Vittorio Mincato, presidente dell'Eni, del futuro di questa collaborazione. Putin, inoltre, ha appena firmato a nome del governo russo un accordo con Mediobanca per la concessione di una linea di credito da 1 miliardo e mezzo di dollari, destinato a finanziare la creazione di societa' a capitale misto. Il 7 giugno 2000 Putin ha incontrato a Roma anche Gianni Agnelli, Paolo Fresco e Paolo Cantarella per discutere degli accordi commerciali relativi alla produzione di tre modelli Fiat (Palio, Siena e Palio Weekend) nelle fabbriche russe di Nizhnj Novgorod. A questo bisogna aggiungere gli accordi di cooperazione militare con la Russia ratificati a dicembre del 1999 dalla Camera dei Deputati, proprio mentre erano in corso i bombardamenti con cui la Russia ha devastato Grozny e molte altre zone della Cecenia, causando migliaia di vittime civili e centinaia di migliaia di profughi.

 

Quanto vale la vita dei profughi ceceni di fronte a queste colossali manovre ? Una misura del valore economico della vita ce l'ha data un funzionario delle Nazioni Unite che abbiamo incontrato al nostro rientro a Mosca. Molto onestamente e senza mezzi termini ci ha fatto presente un altro dei problemi di sicurezza legati alla presenza di volontari stranieri in Caucaso "non aspettatevi aiuto dal governo italiano o dall'ambasciata. Se vi accade qualcosa e' molto probabile che decidano di sacrificare la vita di tre o quattro italiani in nome di un quadro piu' grande". Mentre dice queste parole indica la cartina della Federazione Russa, e capisco che i rapporti diplomatici, economici e politici che legano il mio Paese ad un governo che ordina bombardamenti a tappeto su colonne di profughi in fuga fanno davvero parte di "un quadro piu' grande", un quadro in cui la mia vita vale meno di zero. Per la prima volta dal mio arrivo in Russia la paura si fa strada dentro di me. Fino ad allora, soprattutto prima del mio ingresso a Grozny, avevo provato molta ansia, inquietudine e angoscia di fronte ai rischi che correvo e alla sofferenza dei profughi, ma la vera paura, un vuoto nero e orribile che ti riempie il petto, mi aspettava in un tranquillo ufficio di Mosca di una agenzia delle Nazioni Unite. Per la prima volta da quando sono nato ho una misura molto reale e tangibile del valore della vita umana e della mia vita, una piccola vita che per il mio Paese vale meno di Mediobanca, dell'Eni e della Fiat.

 

PARTE III - UNO SGUARDO ALL'ITALIA - CONSIDERAZIONI PERSONALI

La guerra in Cecenia, con le sue migliaia di vittime civili e centinaia di migliaia di profughi, e' tutt'altro che un semplice "problema interno" della Federazione Russa. Gli effetti di questa combinazione esplosiva di interessi criminali, politici, economici, strategici e legati al fondamentalismo religioso possono essere tali da compromettere la stabilita' di tutta la regione del Caucaso e dell'intera Europa Orientale. Anche l'Italia, che ha appena ratificato nuovi accordi di cooperazione militare con la Russia, e' in parte complice di questa situazione per miopia o per calcolo potremmo renderci conto delle nostre responsabilita' solo quando sara' ormai troppo tardi.

 

Fermandomi a riflettere sulle cause sociali e sul contesto politico che hanno fatto da sfondo alla guerra in Cecenia, sono arrivato alla conclusione che il terreno fertile che ha reso possibile lo scoppio della violenza e' stato un clima sociale caratterizzato, tra l'altro da questi fattori sensazione di insicurezza dei cittadini dovuta all'illegalita' diffusa, perdita di autorevolezza delle istituzioni, mancanza di partecipazione diretta alla vita politica del paese, perdita di fiducia nelle autorita' dello Stato, assenza o inefficienza degli strumenti preposti alla tutela dei cittadini, in una parola l'assenza o la latenza di quello che in Italia viene definito come "stato di diritto". E' questo il clima che ha permesso ad un potere autoritario di insediarsi stabilmente alla guida della Russia trascinando la popolazione in due sanguinose guerre contro la Cecenia, dove oltre a migliaia di civili hanno perso la vita anche migliaia di soldati russi.

 

In Italia lo stato di diritto si esprime attraverso una fitta rete di strutture e organismi che proteggono e tutelano i cittadini, come ad esempio le istituzioni, la magistratura, le associazioni, le organizzazioni politiche e sindacali, le forze dell'ordine, i servizi di sanita' pubblica, l'istruzione pubblica, le strutture religiose e le varie espressioni della societa' civile.

 

Indubbiamente, anche nel nostro Paese tutti i soggetti dello stato di diritto non sono immuni dalla corruzione, dai problemi dovuti ad una cattiva gestione o dall'influenza dei grossi gruppi di potere politico ed economico. Tuttavia, in Russia e nel Caucaso questa "rete di protezione" dei cittadini si e' smagliata molto di piu' di quanto non lo sia in Italia, e ha lasciato aperti dei buchi dove hanno trovato spazio l'illegalita', il malgoverno, la violenza privata e quella delle istituzioni.

 

Il sintomo piu' chiaro di questa "assenza di stato" e' la mancanza di partecipazione da parte dei cittadini alla vita politica del paese. Sentendosi sempre piu' delusi e sempre meno rappresentati dai loro leader, gli abitanti della Federazione Russa hanno iniziato a perdere le speranze di cambiamento e di giustizia sociale maturate dopo il crollo del regime sovietico. Gettando la spugna e rassegnandosi al meno peggio i cittadini della Federazione Russa hanno delegato ad altri le questioni di politica interna, ritenendo inutile una partecipazione attiva alla politica, dal momento che per molti il passaggio dal regime alla democrazia non ha comportato nessun cambiamento nel tenore e nella qualita' della vita. Questo abbandono della politica e questo disinteresse per la "cosa pubblica" e' stata la condizione fondamentale per un nuovo rilancio del "pugno di ferro" e della potenza militare della Russia. Il giorno stesso dell'elezione di Putin alla presidenza della Federazione, la marina russa ha effettuato tre test con missili balistici, di cui due lanciati da un sottomarino nucleare, per una dimostrazione di forza plateale e gratuita.

 

Aver toccato con mano il clima culturale, sociale e politico che e' alla base della gestione del potere in Russia mi ha fatto apprezzare molto piu' di prima i meccanismi democratici e lo stato di diritto che fortunatamente esistono ancora in Italia, nonostante gli innegabili problemi e le eccezioni a questo stato di diritto rappresentate dalle condizioni delle strutture carcerarie, dall'inadeguatezza delle pensioni minime e da un servizio sanitario che non e' in grado di coprire totalmente i bisogni dei cittadini, soprattutto dei meno abbienti.

 

Dopo aver vissuto qualche settimana a Mosca e in Caucaso, oltre ad apprezzare maggiormente il contesto legale e democratico italiano (pur con i suoi mille difetti) ho capito che la guerra e la violenza non sono cose che ci sono totalmente estranee, che i semi dell'odio sono presenti anche nel nostro paese. Ho maturato la consapevolezza che negli italiani non e' presente nessun "anticorpo" particolare che li renda immuni dall' orrore della guerra. Non siamo un popolo "geneticamente" pacifico, ma rispetto alla Russia abbiamo qualche decennio in piu' di democrazia alle spalle che ci protegge ancora (per il momento) da derive autoritarie o dalla sfiducia totale nelle istituzioni da parte dei cittadini, presupposti indispensabili all'esplosione violenta del disagio sociale.

 

In Italia l'educazione alla Pace e' spesso stata descritta come un educazione all'internazionalismo, all'amicizia con altri popoli, al rispetto delle diversita', alla risoluzione dei conflitti a livello personale. Sicuramente l'educazione alla Pace e' tutto questo, ma tenendo conto della situazione particolare del nostro Paese ritengo che in Italia anche l'educazione civica, l'educazione alla legalita', l'educazione al rispetto delle istituzioni, l'educazione alla cittadinanza attiva e alla partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica siano tutte forme di educazione alla Pace, indispensabili per prevenire esplosioni di violenza collettiva simili a quelle che hanno trascinato la Russia e la Cecenia in un nuovo inutile massacro. In questo l'Italia ha avuto due grandi maestri Aldo Capitini, con i suoi "centri di orientamento sociale", dove i bisogni e le aspirazioni dei cittadini trovavano spazi per esprimersi, per progettare nuove soluzioni e per incontrare le istituzioni, e Danilo Dolci, che con i suoi "scioperi al contrario" e le lotte per la dignita' dei lavoratori contro lo strapotere della Mafia ha saputo risvegliare la coscienza civile di moltissime persone.

 

L'ambiente favorevole in cui e' esplosa la guerra in Caucaso era gia' segnato da molti anni dalla violenza, dall'affermarsi della legge del piu' forte, dal banditismo e dall'attivita' mafiosa, che hanno trovato il loro terreno di coltura in uno stato autoritario, privo di garanzie oggettive per i cittadini che corrispondano ai diritti sanciti sulla carta. In questa chiave di lettura, anche nel nostro Paese il disinteresse per la partecipazione politica, il calo dell'affluenza alle urne, il dilagare del qualunquismo che fa comodo a chi vuole mantenere il potere e ha bisogno del minor numero possibile di "teste pensanti", lo svuotamento dei contenuti della politica e la riduzione della dialettica tra i partiti ad uno scontro sterile di tipo calcistico tra due schieramenti opposti sempre meno rappresentativi del paese reale, contribuiscono a creare le condizioni per uno svuotamento dello stato di diritto, che e' il primo passo per la creazione di un regno del terrore simile a quello attualmente presente in Caucaso.

 

Tutti i fenomeni che allontanano la gente da chi dovrebbe rappresentarla sono un serio rischio per la sicurezza, la stabilita' e la Pace nel nostro Paese. Una analisi molto approfondita delle guerre civili e dell'importanza della partecipazione politica per il mantenimento della Pace e' apparsa sul numero 2/1999 della Rivista "Aggiornamenti Sociali", in cui si legge che "L'esigenza piu' universale e' quella della partecipazione politica perche' proprio il monopolio del potere (...) e' solitamente responsabile di molte altre disuguaglianze. (...) Poiche' ogni caso di conflitto che abbiamo preso in considerazione ha alla base una mancanza di partecipazione politica, questa puo' essere considerata una norma universale per tutte le societa' a rischio di guerra".

 

Il miglior antidoto contro l'anarchia mafiosa, la guerra civile e la violenza privata e istituzionale e' la partecipazione diretta alla vita democratica del paese attraverso l'esercizio attivo dei propri diritti di cittadino. I diritti democratici, i diritti civili e i diritti umani non si stabiliscono una volta per sempre su un pezzo di carta, ma vanno affermati, declinati, conquistati e difesi giorno dopo giorno, nella vita quotidiana, sul posto di lavoro, a scuola, in ospedale, nelle strutture sanitarie, negli uffici pubblici e in ognuno dei nostri ambiti di attivita'.

 

La "prevenzione democratica" della violenza e del conflitto sociale nel nostro paese e' un argomento che non compare nell'agenda dei nostri politici. Alcuni sintomi preoccupanti evidenziano un pericoloso cammino in direzione contraria a questa prevenzione, uno scollamento irreversibile della popolazione dal mondo sempre piu' autoreferenziale della politica di palazzo.

 

Negli ultimi anni la classe politica italiana ha sferrato, sia da destra che da sinistra, alcuni duri attacchi allo stato di diritto e alla stabilita' pacifica dell'Italia, sia sul fronte del diritto interno che su quello del diritto internazionale. Mi limito a citare i due casi che a mio giudizio sono piu' emblematici.

 

Dal punto di vista del diritto interno, i continui attacchi verbali e mediatici sferrati dagli esponenti del polo ai danni della magistratura rappresentano a mio avviso una azione pericolosamente eversiva, appoggiata da una campagna mediatica (un esempio per tutti gli "sgarbi quotidiani") che ha gia' attecchito profondamente in una buona fetta dell'opinione pubblica. In particolare, e' abbastanza grave che un candidato alla presidenza del consiglio abbia passato gli ultimi anni a screditare continuamente il lavoro della magistratura, basando questi attacchi principalmente su presunte "persecuzioni personali" e non su problemi collettivi come la lunghezza dei processi, il collasso del sistema carcerario o le condizioni di vita dei detenuti.

 

Se il leader del partito italiano che gode del maggior numero di consensi da parte degli elettori scredita l'intera categoria dei magistrati e distrugge la gia' scarsa fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia e della magistratura, chi potra' impedire che questa sfiducia si estenda anche alle altre strutture dello stato e che la gente cerchi una soluzione dei propri problemi al di fuori delle regole del gioco democratico ?

 

Se si afferma il principio che le vittime di sentenze ingiuste possono farsi giustizia da sole a colpi di dichiarazioni televisive, si accetta in linea di principio che un cittadino possa cercare giustizia da se' al di fuori delle istituzioni. In questo senso va riconosciuto al senatore a vita Giulio Andreotti un buon senso di responsabilita' e un buon rispetto delle istituzioni democratiche. Riconducendo all'interno del tribunale ogni valutazione sulla sua innocenza o colpevolezza, Andreotti ci ha risparmiato la sua "guerra mediatica" contro i suoi accusatori, evitando di strumentalizzare il credito e lo spazio di cui gode presso la stampa e i media italiani per affermare la propria innocenza fuori dal tribunale con una serie interminabile di interviste, dichiarazioni, attacchi verbali.

 

Farsi giustizia da se' utilizzando il proprio potere politico e mediatico rappresenta un grave pericolo per la democrazia, perche' si apre la strada ad una "giustizia extragiudiziaria" simile a quella di chi si fa giustizia da se' a colpi di lupara. Se si cerca giustizia al di fuori delle strutture e delle regole dello stato si crea quell'assenza di stato e quella mancanza di credibilita' nelle istituzioni che sono i semi da cui germoglia l'anarchia, la violenza, il banditismo, la guerra. Socrate ha perso la vita in nome del rispetto della legge. Magari non possiamo pretendere la stessa coerenza stoica anche dai nostri politici, ma perlomeno possiamo pretendere che i nostri governanti alimentino la fiducia nelle istituzioni e migliorino l'efficacia del loro funzionamento anziche' distruggere la credibilita' di uno dei tre poteri fondamentali dello stato.

 

Il secondo grave attentato alle istituzioni democratiche e al diritto internazionale e' rappresentato a mio avviso dalle modalita' e dallo svolgimento della recente guerra nel corso della quale gli aerei italiani hanno bombardato la Repubblica Federale di Jugoslavia. Al di la' di ogni valutazione sul valore etico, sulla utilita', sulla necessita' o sulla opportunita' della guerra, c'e' da dire che questa guerra, giusta o meno che fosse, ha costituito una grave violazione dell'ordinamento interno e del diritto internazionale, sferrando un grave colpo alla credibilita' e all'autorita' delle Nazioni Unite in materia di ingerenza umanitaria. Si e' affermato in linea di principio che una alleanza di 19 paesi puo' farsi giustizia da se' a nome di tutti i paesi del mondo. Per rispettare le regole del gioco democratico e del diritto internazionale, sarebbero bastati tre semplici accorgimenti. Innanzitutto un intervento armato avrebbe dovuto essere subordinato ad una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Anziche' affrontare alla radice il problema della democratizzazione delle Nazioni Unite, con l'eliminazione del diritto di veto grazie al quale la Russia avrebbe potuto bloccare una risoluzione contro la Jugoslavia (lo stesso veto che rispetto alle violazioni dei diritti umani consente agli Usa di proteggere la Turchia e alla Cina di proteggere se stessa), si e' preferito far decollare i bombardieri senza autorizzazione da parte dell'ONU, svuotando il consiglio di sicurezza della sua autorita' e del suo ruolo di arbitro al di sopra delle parti in merito ai problemi di sicurezza internazionale legati al rispetto dei diritti umani.

 

La seconda cosa da fare per rientrare all'interno delle regole del diritto sarebbe stata far deliberare alle camere lo stato di guerra, anziche' arrogare al governo l'autorita' di deliberare un attacco militare contro uno stato estero. In merito a questa obiezione le giustificazioni presentate sono state due quello che abbiamo fatto non e' una guerra e un dibattito parlamentare successivo ha legittimato l'azione militare. In merito alla prima obiezione, la discussione sulla definizione del nostro intervento sulla Repubblica Federale di Jugoslavia potrebbe durare all'infinito. Personalmente ritengo che se alcuni velivoli italiani sganciano ripetutamente materiale esplosivo ai di fuori dei confini nazionali, questo tipo di attivita' possa a pieno diritto rientrare nella definizione di guerra. Riguardo al dibattito parlamentare avvenuto a bombardamenti in corso, va detto che l'ordine del giorno di quel dibattito non era la deliberazione dello stato di guerra ma l'approvazione di alcune mozioni in cui si facevano varie proposte per la condotta futura del governo sospensione dei bombardamenti o "soluzione mista" fatta di bombe e diplomazia. Alla fine ha vinto l'opzione del "doppio fronte" militare e diplomatico, ma cio' nonostante lo stato di guerra non e' mai stato deliberato.

 

La terza violazione del diritto legata a questa guerra e' rappresentata dal ruolo offensivo e non difensivo ricoperto dall'aviazione italiana, un ruolo offensivo che contrasta apertamente con il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie sancito dall'articolo 11 della Costituzione. Mentre la guerra contro la Repubblica Federale di Jugoslavia era ancora in cantiere, in un documento prodotto dal governo, durante la presidenza di Romano Prodi, era stato chiaramente definito il ruolo di "difesa integrata" assegnato alle forze armate italiane, e i vincoli costituzionali che limitavano la possibilita' di azione alla sola difesa. Successivamente, con il nuovo governo guidato da Massimo d'Alema, questo ruolo e' stato progressivamente modificato, e gli aerei italiani hanno effettuato a piu' riprese incursioni aeree e bombardamenti sul territorio della Jugoslavia, secondo quanto ho potuto personalmente appurare da fonti dirette e coinvolte nelle azioni militari.

 

Alla luce di questi due esempi appare chiaro come la destabilizzazione delle istituzioni nazionali e internazionali sia un gravissimo problema per la nostra sicurezza e per il nostro futuro. Subordinare la giustizia nazionale alla sete di giustizia di una singola persona e subordinare la giustizia internazionale alla forza di una alleanza militare sono stati due gravi atti di destabilizzazione che alla lunga rischiano di corrodere dal basso e dall'alto la rete di protezione dei cittadini e le strutture di tutela che oggi fortunatamente riescono a contenere il disagio sociale e i conflitti del nostro paese all'interno delle regole del gioco democratico. In assenza di una forte consapevolezza del rischio di "russificazione" del nostro Paese, nessuno puo' dire cosa ci riserva il futuro, e se l'Italia del 2050 sara' un paese prospero o un deserto distrutto dalla violenza. Il mio viaggio in Cecenia mi ha fatto intravedere un futuro possibile per il mio Paese, i miei cari, la mia gente. Sta a noi fare in modo che quel futuro non si avveri mai.

 

Carlo Gubitosa