|
La via dell'oppio Armagheddon |
|
Balestrino - Castelvecchio di Rocca Barbena
12/13 aprile 2014
di Attilio Gaudio
da Peshawar
"Togliere le armi alle tribù pathane della
frontiera di Nord-Ovest sarebbe come portar via i cavalli ai Mongoli.
Preferiscono morire. Questo non lo sanno gli americani, ma lo sa
benissimo il nostro generale Musharaf", così mi dice un giornalista del
Pakistan Herald mentre mi accompagna con la scorta armata nel villaggio
di Kohat, una quarantina di chilometri a sud di Peshawar, lungo la
vecchia strada del contrabbando con l'Afghanistan.
Volevo verificare se la guerra in Afghanistan aveva cambiato qualcosa in
questa regione montagnosa, dove ogni villaggio di pietre e fango è,
dalla fine dell'impero britannico, un'unica fabbrica di armi. Avevo
liberamente fotografato questi infaticabili e abili armaioli pochi anni
prima dell'invasione sovietica, quando tutti i tipi di armamento
moderno, tra cui i moschetti calibro dodici con i caricatori automatici
a undici colpi, venivano venduti a qualsiasi acquirente. Come allora,
non esiste alcun controllo delle autorità, e le armi nuove di zecca sono
affastellate per decine di chilometri ai due lati della strada tra Darra
e Kohat, o appese come un'insegna alle porte delle fucine. Sono cambiati
solo i tipi di armi: le pistole intarsiate e i fucili a canna lunga sono
stati sostituiti da mitra, bazooka, fucili mitragliatori. E sono
cambiati anche i prezzi, al ribasso: un mitra 36 euro, un lancia-razzi
portatile 260 euro, un missile anti-aereo Stinger (terrore degli
elicotteri russi) dai 500 ai 1.500 euro. Armi micidiali passate
tranquillamente dai mujaheddin che combattevano per l'Armata Rossa agli
uomini di Bin Laden poi di nuovo ai mujaheddin.
Ripartiti da Peshawar per l'Afghanistan andiamo a dare
un'occhiata alla famosa università islamica da cui sono usciti per
decenni i commandos suicidi di El Qaeda e i grandi trafficanti
interasiatici di stupefacenti.
Con la fine del regime del mollah Omar e il voltafaccia politico del
presidente pakistano Musharaf, gli anonimi caseggiati sembrano diventati
una banale madrasa (scuola tradizionale islamica), frequentata da
ragazzi pacifici e studiosi. Ovviamente è stata rimossa la scritta
agghiacciante "Benvenuti i volontari della guerra santa" che indicava
l'accesso a questo santuario della legione straniera di Bin Laden.
Fra le molte osservazioni interessanti del nostro autista, una mi rimane
impressa: "Nei dieci anni dell'occupazione sovietica dell'Afghanistan
gli americani hanno inondato di armi e di dollari tutti i giovani
musulmani di qualsiasi paese che si presentavano in questa università.
Per le vie di Peshawar si sentiva parlare più arabo che urdu, e
qualsiasi pachistano che volesse far soldi con il traffico dell'eroina
trovava subito lavoro. Adesso sono quegli stessi americani a farci la
morale a suon di bombe...".
L'oppio, eterno nerbo dei conflitti asiatici, torna a rifiorire nelle
vallate afgane dopo che, nel novembre 2001, i capi dell'armata del Nord
vincitrice hanno tacitamente autorizzato la ripresa delle semine. Non
c'è da stupirsi se oggi il Pakistan conta quattro milioni di
tossicodipendenti, di cui un terzo minorenni: la più alta percentuale
del mondo.
Al confine con l'Afghanistan mi aspettavo un controllo rigorosissimo e
invece i pochi militari pachistani dei reparti speciali di frontiera se
ne stanno all'interno del forte Torkham. Sembrano pietrificati davanti
alla televisione: hanno captato un canale della tv indiana e le gambe
nude delle ballerine indù fanno dimenticare tutte le guerre, quella
dell'Afghanistan e quella, per loro sacra, del Kashmir...
A Batsawul il vecchio mollah, dal quale l'autista mi ha portato a bere
un tè, mi racconta che in dicembre i bombardamenti americani hanno
provocato in una sola notte più di quaranta morti e centinaia di feriti.
Poi, chiedendo conferma all'autista della mia nazionalità, aggiunge
chinandosi verso di me e toccandomi la mano: "Per la giornalista
italiana uccisa, le giuro su Allah che non è stato nessuno di noi".
A Jalalabad, seconda città dell'Afghanistan a metà
percorso tra il Kyber Pass e Kabul, dormiamo su una stuoia, sfiniti,
nonostante il fragore sordo delle esplosioni in lontananza. Di primo
mattino l'autista mi porta dal bazar uova sode e gallette di pane scuro
con tè bollente. Raggiunti da una scorta di mujaheddin, ripartiamo verso
la "Montagna Nera". Ci fermiamo di fronte alla scuola del grosso borgo
pathano di Kaja, uno dei capoluoghi del distretto di Sorkh Rod. Da lì si
dirama verso il Pakistan e l'Asia centrale una delle più vecchie e
battute vie della droga. Non soltanto oppio, ma anche tonnellate di
morfina, hashish ed eroina.
Il direttore della scuola, Mohammad Ibrahim, alto, giovane e barbuto
come gli "studenti", non vuol nascondere nulla. Oltre al suo incarico
pedagogico è anche proprietario di cento ettari di terreno nella valle:
dieci coltivati a grano e i restanti a oppio. "Il mio stipendio di
direttore della scuola - spiega Ibrahim facendoci sedere sull'unico
tappeto di casa sua, ma chiedendomi di non scattare foto - è di 400 mila
afgani (circa 23 euro) al mese, che non bastano neppure per comperare
trenta chili di farina. Con la produzione agricola normale morivamo
tutti di fame e i miei genitori dovevano spesso ipotecare il raccolto
per poter comperare i vestiti e i medicinali per i bambini. Coltivando i
papaveri ci siamo salvati, noi e gli altri contadini della zona. Qui il
raccolto è buono: 75 chili d'oppio all'ettaro. Il mio terreno rende
circa 1.000 euro che mi vengono pagati dagli intermediari. Loro portano
le capsule dei papaveri nei laboratori nascosti nelle grotte e con 75
chili di lattice ottengono dieci chili di eroina raffinata. I prezzi
diventano favolosi, ma noi semplici produttori non li conosciamo".
In Afghanistan l'oppio è rimasto sovrano fino al 1999,
come ci racconta Kharabad Samshoui Haq, responsabile locale del
programma di lotta contro la droga, patrocinato dall'Onu (ma non dal
nuovo governo di Kabul); con una produzione annua che in quell'anno
aveva raggiunto le 5.000 tonnellate, sufficienti per soddisfare la
richiesta del mercato europeo per cinquant'anni. I talebani avevano
tranquillamente tassato del 10% i contadini afgani che coltivavano
l'oppio e del 20% il fatturato della raffinazione e del trasporto.
Secondo i dati dell'agenzia antidroga dell'Onu, i papaveri erano
diventati da generazioni l'unica e proficua risorsa di ben 200 mila
famiglie in 6.645 villaggi diversi che guadagnavano cento volte di più
della normale vendita di prodotti agricoli. Ma nel 2000 anche il governo
fondamentalista del mollah Omar si è rassegnato a chiudere la via
dell'oppio che lo aveva enormemente arricchito. In due anni i campi
oppiacei che coprivano una superficie di 90.000 ettari si sono ridotti a
27 - sempre secondo le stime Onu - anche se sia i talebani sia i
mujaheddin dell'Alleanza del Nord hanno continuato a incrementare il
commercio con le repubbliche ex sovietiche, mentre il proibizionismo
ufficiale provocava nel 2001 un rincaro dell'oppio afgano che passava da
44 a 400 dollari al chilogrammo.
La sostituzione dell'antica "via della seta" con quella moderna
dell'oppio preoccupa abbastanza i vari governi locali da aver reso
necessario un vertice a Tashkent dei presidenti dell'Uzbekistan,
Tagikistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Kazakistan. Essi hanno firmato
un accordo di cooperazione per la lotta contro la droga, pur constatando
gli scarsi mezzi disponibili per passare all'azione. Molto più di quanto
l'Afghanistan inonda di eroina il mercato mondiale, l'oppio viene
prodotto in grandi quantità dallo sterminato Kazakistan. Come se non
bastasse, la prorompente mafia cinese della droga ha incrementato negli
ultimi anni la sua via asiatica dell'oppio, i cui papaveri coltivati
nello Yunnan vengono poi trasportati e trasformati nel Sinkiang, a un
giorno di camion dal confine con il Kazakistan. I collegamenti tra le
due grandi regioni centro asiatiche sono stati enormemente favoriti
dalla messa in funzione della ferrovia Urumci-Alma Ata (due notti e un
giorno di treno) e dall'apertura della linea aerea bisettimanale tra le
due capitali.
Ma il principale crocevia dell'eroina afgana e dell'oppio tartaro è diventata l'antica Osh, città di frontiera del Kirghizistan, dove quasi tutti i cittadini e funzionari vivono - direttamente o di riflesso - del traffico illecito degli stupefacenti. Gli automezzi con il prezioso carico riescono a valicare colli a 4000 metri e percorrono decine di strade clandestine per centinaia di chilometri che nessuna polizia riesce o vuole controllare. I chilometri fanno salire il prezzo degli stupefacenti: il chilo di oppio grezzo che in partenza dall'Afghanistan costa 50 dollari, ne vale circa 800 a Osh e il quadruplo a occidente degli Urali. Un itinerario "speciale" è stato tracciato nel Turkmenistan e ha per epicentro la città di Kouchka. Si tratta di una via della droga a doppio senso. In effetti la percorrono da Mosca all'Afghanistan quei trafficanti che devono procurare ai "laboratori" asiatici i prodotti chimici indispensabili per raffinare l'eroina. Come i loro colleghi pachistani, che si arricchiscono lasciando transitare la droga afgana dal Kyber Pass, la quale verrà imbarcata a Karaci per i mercati occidentali, i doganieri uzbeki e tagiki fanno finta di non vedere e di non sapere.